Ha compiuto 89 anni, rivoluzionato la storia clinica del piede e, fino al 2006, diretto il Centro di chirurgia del piede della Clinica Fornaca, dove è presidente onorario del Comitato scientifico.
In questa intervista racconta passato, presente e futuro di una professione scelta da bambino.
«Ho deciso di fare il medico quando ero ancora bambino e mia nonna, in stretto dialetto dell’entroterra del Ponente Ligure, mi ripeteva che al medico andavano sempre riservate le tazzine più belle di casa. Il medico in questione era il dottor Carli: stivali, giacca e pantaloni alla zuava. Ma lui accettava di sedersi a tavola solo se lo faceva anche mia nonna. Si trattava di rispetto reciproco, da conquistare e da meritare. Per il medico e per il paziente».
Da bambino il professor Giacomo Pisani, 89 anni compiuti lo scorso 15 marzo, viveva a Valloria, il paese delle porte dipinte, uno dei borghi antichi più suggestivi del territorio imperiese. La vita del Professore, responsabile del Centro di chirurgia del piede della Clinica Fornaca dal 1991 al 2006, è proprio un susseguirsi di porte dipinte con maestria, ricche di colori intensi, tratti epici e impasti di una consistenza oggi non più riproducibile.
«Sono nato a Diano Marina il 15 marzo del 1926. Mi sono laureato nel 1951 e per sessant’anni ho avuto il privilegio e il piacere di svolgere la professione che sognavo da bambino. Quanti pazienti ho avuto nel corso della mia carriera? Non mi sono mai posto una domanda del genere. Sono stati di certo migliaia, ma un numero preciso o comunque indicativo non sono proprio in grado di esprimerlo».
Di preciso c’è però che il professor Giacomo Pisani ha contribuito in modo decisivo a riscrivere la storia del piede.
«Negli anni ’60 il piede veniva considerato sul piano frontale, io fui tra i sostenitori del piano sagittale che ancora oggi è quello adottato in tutto il mondo. Con i colleghi Antonio Villadot (di Barcellona) e Bernard Regnauld (di Nantes) facemmo battaglie leggendarie e diventammo una vera attrazione ai congressi scientifici. Eravamo grandi amici e passammo anche molte vacanze insieme. La mia personale consacrazione arrivò al Congresso internazionale di medicina e chirurgia del piede a Bruxelles, nel 1975, quando il presidente del Collège International, dottor Adhemar De Wolf, scrisse un articolo che sosteneva le mie opinioni».
Laurea, libera docenza, esperienza in molti ospedali di Torino e del Piemonte (in particolare, il San Lazzaro di Alba tra il 1970 e il 1975), consacrazione internazionale e, a un certo punto, l’approdo alla Clinica Fornaca.
«Per me lavorare alla Fornaca era un autentico sogno di gioventù, radicato negli anni ’50 quando ero assistente all’Ospedale Infantile Regina Margherita che allora si trovava in via Menabrea, angolo corso Bramante. Ci passavo davanti e mi dicevo che un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto lavorarci. L’occasione arrivò nei tardi anni ’80 e non mi feci pregare troppo per accettare l’offerta, attratto anche dalla presenza della Fondazione Pia Lobetti Bodoni, il cui scopo era quello di favorire l’attività scientifica, come testimoniato dalla creazione e dal sostegno dei corsi di formazione per la chirurgia del piede. Non si può svincolare la professione dal suo aspetto culturale: che una struttura privata avesse allora un’attenzione che è stata conservata nel tempo rappresenta a mio modo di vedere un grosso punto a favore».
Una scelta che non ha mai rimpianto. Anzi…
«Alla Clinica Fornaca ho vissuto vent’anni davvero belli e ricchi di soddisfazioni. Oltre all’aspetto puramente professionale, che ha visto la mia storia personale andare di pari passo con quella della chirurgia del piede, mi va di sottolineare la ricchezza dei rapporti personali vissuti con chi ha lavorato accanto a me in così tanti anni. Sono grato alla Clinica Fornaca e alla sua amministrazione. Oggi sono presidente onorario del Comitato scientifico della Clinica e contribuisco alla preparazione dell’edizione numero 66 del Corso propedeutico alla chirurgia del piede. Dico scherzando che la mia attività professionale è ormai quella di “onorario”, tutt’altro che disprezzabile visto che mi consente di continuare a viaggiare e mantenere i rapporti col mondo che ho sempre frequentato. Inoltre, la mia mentalità archivistica mi ha permesso di conservare tutto, biglietti del treno compresi, dalla mia laurea fino allo stop della mia attività. La mia storia e, di conseguenza, la storia del paziente sono tutte lì: nei libri che ho scritto».
“Una storia del tutto personale: 1951-2011 – Personaggi, eventi, luoghi del pianeta piede” è il ricco volume che lo raffigura alla perfezione, ma com’è cambiato il rapporto tra medico e paziente?
«La domanda da fare è un’altra: chi è cambiato di più tra paziente e medico? Io ho sempre avuto un ottimo rapporto col paziente e in oltre cinquant’anni non è mai mutato. Chissà, forse le radici del cambiamento affondano nella Riforma Mariotti e nel conseguente cambio che, dal ’68 in avanti, portò i pazienti negli ospedali alterando il rapporto personale che fino ad allora era esistito con il medico di famiglia. Per questo dico che sono cambiati tutti e due i fattori dell’equazione e che oggi il rapporto è sempre più impersonale, così come la medicina è sempre più strumentale e meno clinica. I medici di oggi conoscono benissimo radiografie e risonanza magnetica, ma non hanno l’approccio clinico di un tempo. Negli anni ’60 era tutto clinico: esame obiettivo, anamnesi, eccetera».
Come valuta allora la nuova generazione di chirurghi del piede?
«Ce ne sono ormai parecchi e alcuni di loro sono validi. Tuttavia pochi sanno cosa fare prima di prendere in mano il bisturi: “sapere cosa fare” comprende anche il giusto approccio con il malato e la diagnosi corretta. Molti insuccessi non derivano da un intervento eseguito male, quanto da una diagnosi sbagliata o da un’indicazione non corretta. Ecco perché i nostri corsi sono sempre così attuali: insegnano la diagnosi corretta e il giusto approccio al malato, senza per forza delegare all’indagine strumentale, che non sempre è del tutto significativa. Orecchie per ascoltare l’anamnesi, mani per toccare, occhi per vedere: il cervello risponde a questi componenti. È bene che i giovani lo sappiano».
A proposito di giovani, quella di medico è ancora una professione che si sentirebbe di consigliare?
«Sì, laddove questi giovani sono motivati e non pensano al denaro. È quello che ho detto a mia nipote, oggi all’ultimo anno di liceo e intenzionata a studiare Medicina. Le ho detto che, come minimo, ne avrà fino a 30 anni tra laurea e specialità, dopodiché le ho consigliato di individuare un “maestro a cui rubare il mestiere”. Missione sempre più difficile, visto che oggi è tutto globalizzato, standardizzato, informatizzato. Ci vorrebbe una figura capace di uscire dagli schemi ma non è facile trovarla».
Un aneddoto degli anni passati alla Clinica Fornaca?
«Almeno due. Il primo riguarda due medici giapponesi che avevano frequentato uno dei nostri corsi di aggiornamento: erano rimasti così impressionati dalla struttura che avevano fotografato tutto, maniglie comprese. Ne avevano ben donde: all’interno della Clinica c’era persino un ristorante che era un piccolo “Cambio” e serviva addirittura lo zabaione. L’altro aneddoto riguarda invece un collega di Caltagirone, il dottor Amato, che un giorno si presentò a un corso con quello che allora era uno dei primi telefoni portatili in commercio. Era un apparecchio enorme che, tra la nostra curiosità, rimase in assoluto silenzio per giorni finché finalmente suonò. Ci trovavamo in sala operatoria e, soprattutto, chi chiamò aveva sbagliato numero».