A colloquio con il professor Giovanni Gandini, professore emerito di Radiologia dell’Università di Torino e responsabile della Radiologia della Clinica Fornaca: «Queste polmoniti si presentano spesso in forma bilaterale e con focolai multipli, una condizione che prima risultava piuttosto rara. È inoltre un virus che si comporta in modo molto variabile».
Polmonite interstiziale: nel corso di questi mesi abbiamo, nostro malgrado, imparato a conoscerla. Si tratta di una forma severa di polmonite infettiva, capace di intaccare i polmoni nella loro parte più profonda e, in forma acuta, di condurre fino a un’insufficienza respiratoria grave. È, soprattutto, l’approdo diretto più violento dell’infezione da Covid-19, il virus che solo in Piemonte ha finora colpito oltre 150mila persone e registrato quasi 6mila decessi. Dispnea (la cosiddetta “fame d’aria), tosse secca e febbre ne rappresentano i sintomi più frequenti. «Nei miei quasi quasi cinquant’anni di attività, in questa stagione mi ero sempre misurato con le polmoniti virali interstiziali dovute al virus dell’influenza, ma una situazione del genere non l’avevo mai vista né immaginata», osserva il professor Giovanni Gandini, professore emerito di Radiologia dell’Università di Torino e responsabile della Radiologia della Clinica Fornaca.
Professor Gandini, cosa rende particolare la polmonite interstiziale da Covid-19?
«Le polmoniti interstiziali c’erano ovviamente già prima del Covid-19 ed erano quasi sempre di natura virale e regolarmente diagnosticate. Quelle causate dal Coronavirus hanno però caratteristiche particolari poiché spesso si presentano in forma bilaterale e con focolai multipli, condizione che prima non si vedeva quasi mai. E, attenzione, non mi riferisco solo alle forme più avanzate che portano il paziente in Terapia intensiva, bensì anche a quelle più lievi che si risolvono con la guarigione».
Quale strumento permette al radiologo di diagnosticare la polmonite interstiziale?
«Sicuramente la TC, poiché la semplice radiografia può risultava negativa nelle forme iniziali della malattia e non altrettanto dirimente neanche nelle forme più conclamate della stessa».
Dopo quasi un anno di convivenza forzata con questo virus e con le conseguenti polmoniti interstiziali, come inquadra la situazione attuale?
«In verità, già a novembre e dicembre dell’anno scorso c’eravamo imbattuti in una percentuale di polmoniti interstiziali bilaterali molto superiore a quella degli altri anni. Non so dire se fosse già Covid-19 o meno, ma di sicuro i casi erano stati più frequenti. L’altra cosa che mi sento di affermare con sicurezza è che questo virus è molto variabile in tema di “cattiveria” e di comportamento: ne abbiamo registrato forme estremamente diverse e non sempre “lineari”, ma anzi spesso difformi tra loro nell’evoluzione. Un esempio? Talvolta ci capita di riscontrare piccole lesioni bilaterali che fanno pensare a una, seppur circoscritta, polmonite interstiziale in pazienti con tampone e anticorpi negativi».
Come si esce dalla polmonite interstiziale?
«Nei casi più lievi, abbiamo visto che non lascia tracce e che il paziente recupera tutto per intero. Nelle forme più gravi, invece, una volta completamente risolta la malattia sarebbe bene sottoporsi a un controllo a distanza di due o tre mesi con la TC, perché è in questa situazione che si possono ritrovare lesioni polmonari stabilizzate soprattutto nei pazienti che sono stati a lungo intubati».