Caviglia, dalla protesi alla riabilitazione: due tappe dello stesso cammino


Ne hanno parlato a “Martedì Salute” il dottor Martino Deregibus e il dottor Luca Tomaello, rispettivamente ortopedico e fisiatra della Clinica Fornaca: «Se il compito della chirurgia è quello di riparare o sostituire il danno atomico, quello della riabilitazione consiste nel recuperare la migliore funzionalità di un’articolazione piccola ma molto complessa».   «La caviglia: dall’intervento […]

Ne hanno parlato a “Martedì Salute” il dottor Martino Deregibus e il dottor Luca Tomaello, rispettivamente ortopedico e fisiatra della Clinica Fornaca: «Se il compito della chirurgia è quello di riparare o sostituire il danno atomico, quello della riabilitazione consiste nel recuperare la migliore funzionalità di un’articolazione piccola ma molto complessa».

 

«La caviglia: dall’intervento di protesi alla riabilitazione». È stato questo il tema del “Martedì Salute” che lo scorso 15 novembre, all’Hotel “Concord” di Torino, è stato affrontato dal dottor Martino Deregibus, ortopedico della Clinica Fornaca e responsabile della Chirurgia del piede e della caviglia dell’ospedale CTO di Torino e dal dottor Luca Tomaello, fisiatra della Clinica Fornaca e Direttore sanitario del Centro di riabilitazione per lo sport Isokinetic.

 

«La protesi di caviglia è indicata solo nei casi di artrosi severa – ha premesso il dottor Deregibus richiamando la “classificazione di Van Dijk” che nel 1997 l’ha fissata in quattro diversi stadi -. Né il primo né il secondo stadio la richiedono: una terapia conservativa artroscopica o i farmaci possono essere sufficienti quanto meno a posticipare l’intervento. Il terzo stadio è invece quello dell’artrosi avanzata e della limitazione importante del movimento, mentre nel quarto stadio la degenerazione è gravissima e si registra anche un blocco doloroso dell’articolazione: terzo e quarto stadio sono quelli che possono condurre all’intervento di protesi».

Quella di caviglia è una protesi relativamente giovane e assai meno diffusa di quelle di anca e ginocchio: «Se ne parla in un certo modo da solo dieci anni – ha confermato il dottor Deregibus -. Fino ad allora il cosiddetto “gold standard” era l’artrodesi, tecnica che blocca l’articolazione, togliendo il dolore ma dando rigidità. Qual è il problema dell’artrodesi? Con la caviglia più rigida, la corsa risulta impossibile e la camminata in montagna molto difficoltosa. Inoltre, le articolazioni a valle della caviglia vengono sollecitate molto di più e vanno incontro a un’usura eccessiva che può via via bloccare il piede e rendere difficile la deambulazione del paziente».

 

Il fatto che la caviglia sia una piccola superficie articolare sottoposta a elevatissimi stress ha contribuito a rendere problematica la strada che ha portato alla sua protesi: «È un’articolazione complessa che coinvolge tre capi ossei: astragalo, tibia e perone, attorniati da molti legamenti che in sede chirurgica vanno rispettati per evitare alla protesi di diventare instabile e consumarsi molto in fretta». Se l’articolazione dell’anca è estremamente congruente e poco legamentosa: «L’astragalo risulta molto irregolare e non è così semplice trovare una protesi adeguata – ha precisato il dottor Deregibus -. Anche se oggi l’ingegneria biomedica ci aiuta molto». Le attuali protesi di caviglia sono quelle di terza generazione, dette di “resurfacing”: «Tagliamo pochissimo osso e ricostruiamo un’articolazione funzionante mantenendo il più possibile l’osso residuo, detto “bone stock”». Allinearla in modo corretto è fondamentale per farla lavorare bene («Un difetto di un solo millimetro sposterà il peso del 40 per cento del corpo e produrrà il fallimento della protesi», ha ammonito). L’osteoporosi non è un ostacolo all’impianto di protesi, lo può invece essere una cute particolarmente rovinata.

Il dottor Deregibus ha quindi ricordato che la maggior parte delle protesi di caviglia deriva da traumi e ha illustrato la tecnica chirurgica utilizzata («Con accesso anteriore o con accesso laterale, personalmente preferisco la seconda», ha detto) e alcuni dei casi clinici affrontati fino ad arrivare alle cosiddette “custom made” che permettono di rimediare al fallimento di una protesi attraverso un manufatto su misura del paziente, realizzato dopo TC e modello 3D.

 

Il dottor Tomaello ha parlato di quanto accade dopo l’impianto di protesi di caviglia e lo ha fatto partendo dalla nuova palestra della Clinica Fornaca che, tra le tante cose, riabilita anche i pazienti che hanno subito questo tipo di intervento. Ma ha altresì sottolineato la complessità della caviglia: «La sua biomeccanica ha trentatré articolazioni, ventisei ossa del piede e più di cento tra tendini, legamenti e muscoli – ha spiegato -. L’articolazione della caviglia distribuisce metà del peso al calcagno e l’altra metà alle ossa tarsali, il suo fulcro è l’astragalo che deve essere perfettamente centrato. Insieme con il piede ammortizza il carico nella fase di rilassamento e crea la propulsione del passo nella fase di irrigidimento».

«Se il compito della chirurgia è quello di riparare o sostituire il danno atomico – ha continuato il dottor Tomaello -, quello della riabilitazione consiste nel recuperare la migliore funzionalità dell’articolazione, ecco perché chirurgia e riabilitazione sono due tappe di un unico percorso di cura del paziente». Mediamente, l’età di chi si sottopone a un intervento di protesi di caviglia è più bassa di quella che riguarda chi fa una protesi di anca o di ginocchio: «Spesso si tratta di pazienti sportivi che hanno subito traumi ripetuti o traumi distorsivi mal gestiti che hanno portato a quadri artrosici importanti».

Dopo l’intervento chirurgico, il dottor Tomaello ha individuato sei tappe del percorso di cura: tutorizzazione (circa quindici giorni), mobilizzazione, concessione progressiva del carico, abbandono dei bastoni canadesi, ritorno alle attività di lavoro e, per chi vuole, ritorno allo sport. «Il passaggio da una fase all’altra deve tenere conto di una serie di elementi biologici come la guarigione dei tessuti e di una serie di elementi funzionali – ha aggiunto il dottor Tomaello -: risolvere il dolore e il gonfiore, recuperare una dopo l’altra articolarità, forza, coordinazione e gesto sportivo specifico». Tutto va sempre fatto osservando precisi criteri di sicurezza.

 

Ma quando può tornare a fare sport il paziente che si è sottoposto a un intervento di protesi di caviglia? «Spesso si pensa che camminare bene sia sufficiente, non è affatto vero – ha messo in guardia il dottor Tomaello -. Le richieste funzionali di qualsiasi sport e a qualsiasi livello sono superiori al semplice camminare. Deve essere d’accordo il chirurgo, il paziente deve aver recuperato al cento per cento la forza di tutta la catena cinetica della gamba, aver eseguito riabilitazione e aver recuperato le condizioni organiche nonché il training neuro motorio». L’esercizio controllato è indispensabile: non interessa la sola caviglia, ma l’intera catena cinetica della gamba. Ecco perché la strategia riabilitativa deve coincidere sempre con un percorso personalizzato che parta dal tipo di chirurgia e dai tempi biologici di guarigione dei tessuti passando per la prevenzione delle complicanze, gli obiettivi del paziente e le caratteristiche costituzionali dello stesso.