Quando si parla di chirurgia della caviglia con intervento di protesi e successiva riabilitazione, è fondamentale che ci sia una buona comunicazione tra l’ortopedico e il fisiatra, come ci raccontano il dottor Martino Deregibus, specialista in Chirurgia ricostruttiva di piede e caviglia protesica e dello sport della Clinica Fornaca e dell’ospedale CTO di Torino e il dottor Luca Tomaello, specialista in Medicina fisica e riabilitativa della Clinica Fornaca.
Cosa si intende per protesi alla caviglia?
«Partiamo con il dire che la caviglia è un’articolazione complessa – racconta il dottor Martino Deregibus – che coinvolge i tre capi ossei dell’astragalo, tibia e perone, attorniati da molti legamenti, tutti componenti che vanno rispettati anche in fase di operazione.
Quella della caviglia è una protesi relativamente giovane e assai meno diffusa di quelle di anca e ginocchio: proprio il fatto che si si vada a trattare una superficie articolare piccola, complessa e sottoposta a elevatissimi stress, ha contribuito a rendere più difficile la strada che ha portato all’intervento di protesi, di cui si parla da una decina di anni.
In principio infatti si eseguiva una artrodesi: toglieva il dolore ma al contempo bloccava l’articolazione, causando una rigidità che impediva attività come la corsa o dava difficoltà nel compiere attività come la camminata in montagna. Le articolazioni a valle della caviglia, sollecitate maggiormente, andavano incontro poi a un’usura progressiva che poteva via via bloccare il piede e rendere difficile persino la deambulazione del paziente.
L’avanzamento in ambito chirurgico, la conoscenza biomeccanica della caviglia e l’ingegneria biomedica con uso di materiali sempre più evoluti, ci hanno aiutato moltissimo anche a livello di durata della protesi.
Attualmente infatti usiamo protesi di caviglia di terza generazione, dette di “resurfacing” che oltre ad avere un ingombro ridotto, sono realizzate con materiali innovativi con capacità di osseo-integrazione molto veloce, sono molto resistenti all’usura e garantiscono un movimento il più corretto possibile. Esistono anche poi le protesi “custom made”, a misura del paziente e su ‘modello’ della caviglia sana, realizzate dopo TC e modello 3D».
Chi deve ricorrere alla protesi di caviglia?
«L’80% delle artrosi di caviglia è post traumatica. Mediamente l’età di chi si sottopone a un intervento di protesi di caviglia è più bassa di quella che riguarda chi fa una protesi di anca o di ginocchio. Spesso si tratta di pazienti sportivi che hanno subito traumi ripetuti o traumi distorsivi mal gestiti con conseguenti quadri artrosici importanti – interviene il dottor Luca Tomaello.
«È importante ricordare che la protesi di caviglia è indicata solo nei casi di artrosi severa – afferma il dottor Deregibus. Partendo dalla “classificazione di Van Dijk” che nel 1997 l’ha codificata in quattro diversi stadi, possiamo dire che né il primo né il secondo stadio la richiedono: una terapia conservativa artroscopica o i farmaci possono essere sufficienti, quanto meno a posticipare l’intervento. Terzo e quarto stadio sono quelli che possono condurre invece all’intervento di protesi: il terzo infatti è quello dell’artrosi avanzata e della limitazione importante del movimento, mentre nel quarto stadio la degenerazione dell’articolazione è gravissima e si registra anche un blocco doloroso dell’articolazione».
Ci sono controindicazioni per l’intervento?
«L’unica controindicazione assoluta può essere una condizione cutanea particolarmente compromessa, essendo la cute della caviglia molto delicata – continua il dottor Deregibus.
Il peso invece è una controindicazione relativa: andando a operare sull’ultima articolazione del corpo, un aumento importante del peso può portare a rischi di una usura della protesi più veloce.
Fumo, diabete, terapia con immunodepressori, patologie organiche sono poi fattori di rischio che non controindicano di per sé l’impianto di protesi, ma è preferibile che il paziente arrivi all’intervento con un miglior compenso possibile. Anche l’osteoporosi non è un ostacolo all’impianto di protesi».
E dopo l’impianto di protesi cosa succede?
«Se il compito della chirurgia è quello di riparare o sostituire il danno anatomico – afferma il dottor Tomaello -, quello della riabilitazione è un passaggio fondamentale nel percorso di cura che consiste nel recuperare la migliore funzionalità dell’articolazione. Avviene in palestra, anche con il supporto di macchinari di ultima generazione. Si tratta di una fase importante proprio per la complessità della caviglia: la sua biomeccanica ha trentatré articolazioni, ventisei ossa del piede e più di cento tra tendini, legamenti e muscoli. Ricordiamo poi che la caviglia distribuisce metà del peso al calcagno e l’altra metà alle ossa tarsali, il suo fulcro è l’astragalo che deve essere perfettamente centrato. Insieme al piede ammortizza il carico nella fase di rilassamento e crea la propulsione del passo nella fase di irrigidimento».
In cosa consiste il percorso di riabilitazione?
«Sono sei le tappe del percorso di cura: tutorizzazione (circa di quindici giorni), mobilizzazione, concessione progressiva del carico, abbandono dei bastoni canadesi, ritorno alle attività di lavoro e, per chi vuole, ritorno a praticare attività sportiva. Il passaggio da una fase all’altra deve tenere conto di una serie di criteri biologici come la guarigione dei tessuti e di una serie di criteri funzionali – ha aggiunto il dottor Tomaello -: risolvere il dolore e il gonfiore, recuperare una dopo l’altra articolarità, forza, coordinazione e poi per chilo desidera gesto sportivo specifico. Tutto va sempre fatto osservando precisi criteri di sicurezza. Per raggiungere una buona autonomia nella vita quotidiana possiamo comunque dire che un percorso di riabilitazione completo ha una tempistica mediamente di tre mesi».
Dopo l’intervento di protesi alla caviglia si può tornare a praticare sport?
«Tornare a camminare bene non è condizione sufficiente per tornare a fare sport – ha messo in guardia il dottor Tomaello -. Le richieste funzionali di qualsiasi sport e a qualsiasi livello sono superiori al semplice camminare. Deve essere d’accordo il chirurgo, il paziente deve aver recuperato al cento per cento la forza di tutta la catena cinetica della gamba, aver eseguito riabilitazione e aver recuperato le condizioni organiche nonché il training neuro motorio. Ecco perché la strategia riabilitativa deve coincidere sempre con un percorso personalizzato che parta dal tipo di chirurgia e dai tempi biologici di guarigione dei tessuti passando per la prevenzione delle complicanze, gli obiettivi del paziente e le caratteristiche costituzionali dello stesso».